Bambini ed emozioni: come aiutarli a capirle e gestirle.

L’unica buona educazione

è quella che permette alle emozioni

di essere libere.

N. Neil

L’espressione delle emozioni è il primo strumento che i bambini più piccoli possiedono che serve per comunicare con le persone intorno ed è per questo che è importante, per noi e per loro, saperle interpretare ed aiutarli a riconoscerle fin dalla più tenera età. Infatti, già nei primi momenti, il bambino è in grado di esprime ciò che prova, attraverso la postura, la voce e le espressioni facciali, che costituiscono quei comportamenti che aiutano coloro che si prendono cura del bambino ad adattarsi ai suoi bisogni, fisici ed emotivi.

Di seguito approfondirò non solo il ruolo che le emozioni svolgono nei bambini nella comunicazione dei propri stati e bisogni all’ambiente circostante ma darò anche qualche spunto su come saperle riconoscere e gestirle al meglio da parte degli adulti che se ne prendono cura.

Premessa

Nell’articolo precedente, ho trattato di cosa siano le emozioni in generale, cioè stati mentali e fisiologici che indirizzano il nostro comportamento in base alle modificazioni psico-fisiologiche dovute a stimoli interni ed esterni. Succede però talvolta che le emozioni, piuttosto che essere nostre alleate ( per esempio la paura nel riconoscimento di una situazione di reale pericolo), diventino “disfunzionali” non consentendoci di vivere bene e generino una sofferenza tale da sfociare in un disturbo. Questo succede anche nei bambini ed è l’ambiente in cui questi vivono che deve mettersi in gioco per trovare la strategia migliore per prevenire, aiutare e curare un bimbo con difficoltà emotive e affettive. Ma andiamo con ordine.

Uno studio dell’Università di Ginevra, in Svizzera, ha messo in luce che anche i più piccini sono in grado di riconoscere le emozioni degli adulti e questa abilità sembra svilupparsi nei primi 6 mesi di vita. In sostanza, la ricerca ha analizzato le reazioni di alcuni bebè per capire se questi fossero effettivamente capaci di associare le emozioni al loro reale significato attraverso un esperimento. Questo consisteva nel porre in un primo momento i piccoli partecipanti davanti ad uno schermo nero ad ascoltare una voce neutra, felice o arrabbiata per 20 secondi. Successivamente, ai bimbi venivano mostrate per 10 secondi delle immagini che ritraevano adulti in preda ad una chiara emozione di rabbia o felicità. I bambini, dopo aver ascoltato per 20 secondi una voce felice, tendevano a soffermarsi più a lungo di fronte alle foto che esprimevano rabbia, poiché rimanevano sorpresi dall’accostamento di due emozioni diverse e ciò ha permesso agli studiosi di affermare che, nei primi 6 mesi di vita, i bebè riescono a distinguere e preferiscono visi sorridenti e voci allegre e che dopo i 6 mesi, i bambini sono in grado di riconoscere i vari stati d’animo. Lo studio è pubblicato sul Plose One Journal.

D’altro canto, inoltre, i bambini sono in grado di provare e comunicare le proprie emozioni sin dai primissimi mesi di vita! Quando nasciamo, infatti, siamo dotati di un corredo emotivo innato, cioè le emozioni sono già dentro di noi, inscritte nei nostri geni. Come sarà già noto a molti, la ricerca ha dimostrato che già in fase prenatale, quando il bimbo è nella pancia, il modo in cui la mamma interagisce con lui/lei, le parole che gli o le dice, i gesti con cui entra in contatto dentro al pancione, la musica che ascolta, lasciano un segno significativo nel cervello del bambino e ne preparano la “competenza emotiva”. Poi, nei primi mesi di vita, la relazione tra il neonato e il suo ambiente accuditivo, ossia gli adulti che si prendono cura di lui, contribuisce alle fondamenta della competenza emotiva che il bambino poi non solo svilupperà in tutto l’arco dell’età dello sviluppo, ma che lo guiderà per tutta la vita.

Il ruolo dell’ambiente

Premettendo, quindi, che se la “educazione emotiva” comincia fin dal primo giorno di vita e continua lungo l’arco evolutivo per NON esaurirsi durante il “ciclo di vita”, si può affermare che genitori capaci di rispondere alla vasta gamma di emozioni del bambino al momento giusto e con la risposta più adeguata saranno in grado di farlo sentire di nuovo tranquillo e sereno e riportarlo ad uno stato di calma.

Educare i bambini alle emozioni è alla base della capacità di saper riconoscere e gestire i propri sentimenti che permette loro di conoscere meglio se stessi, gestire tutti i propri stati d’animo, anche quelli più intensi e distruttivi, e diventare adulti empatici, in grado di creare delle buone relazioni con gli altri.

Ma perché i genitori hanno un ruolo così importante nello sviluppo emotivo del bambino? Dunque, il modo di fare esperienza del mondo da parte del bambino si accresce nel tempo grazie a un naturale processo globale di sviluppo che comprende aspetti cognitvi, motori e sociali, legati tra loro e che fanno da “ponte” fra il mondo interiore del bambino ed il mondo esterno. Perciò, il bambino è sempre più in grado di agire sul mondo esterno attraverso informazioni che derivano dagli stimoli ricevuti dall’ambiente circostante, attraverso l’esplorazione degli oggetti e dello spazio di vita e attraverso la relazione con le figure significative presenti nel suo contesto di vita. Nell’ottica di queste relazioni significative, si ritrova proprio l’importanza della risposta, equilibrata, che l’adulto fornisce al bambino: accanto alla capacità di offrire una risposta ai bisogni fisiologici, come la fame, il sonno e l’igiene, e la capacità di supportare il processo di esplorazione, rientrano a pieno titolo i bisogni psicologici quali il bisogno di vicinanza, il contatto, il gioco ed il dialogo. Essere ascoltato dagli altri e poter condividere i propri vissuti, senza ricevere giudizio, consente al bambino di prenderne coscienza e sentirsi accolto così com’è. In tale quadro, il bambino potrà sperimentare il senso di efficacia personale legata agli scambi relazionali di cui fa esperienza e tassello essenziale della costruzione della propria identità e personalità futura.

E cosa succede quando il bambino non trova negli adulti la capacità di “regolare” le sue emozioni troppo intense e a cui non riesce a dare un nome o gestire? I “capricci” del bambino fanno certo arrabbiare i genitori e, se viene a mancare quel giusto supporto proprio nel momento in cui dovrebbero mostrarsi capaci di rimanere calmi e accoglienti e mostrare al bambino che loro sanno farsi carico e “contenere” tutta la sua intensità, il risultato sarà che il bambino non riuscirà a riconoscere e gestire l’emozione di quel momento e, di conseguenza, dare la risposta adeguata e cioè comportarsi in maniera adattiva e sentirsi padrone di ciò che sta accadendo. E i capricci aumenteranno! Di fronte a qualsiasi emozione del bambino, perciò, l’adulto deve entrare in quel ciclo di regolazione emotiva che permette al bambino di esprimere a livello verbale e non verbale (pianto, urla, “NO!”, “non voglio”…) il disagio che sta sperimentando e non sa gestire. Pertanto, è importantissimo che l’adulto comprenda lo stato emotivo che il bambino sta vivendo e cerchi una risposta che possa contenerlo e sostenerlo nei suoi bisogni in quel momento di modo che l’intensità dell’emozione possa farsi più gestibile da parte del bambino che avrà la sensazione di poter adesso “sbloccarsi” grazie all’aiuto di un adulto competente.

Detto ciò, si comprende come i bambini imparino a regolare le proprie emozioni all’interno della relazione con l’adulto, la quale costituisce un importante modello a cui ispirarsi. Se il bambino può viverle liberamente e riceve una risposta adeguata dal mondo degli adulti, le sue emozioni saranno “adattive“, cioè favoriranno il giusto inserimento del bambino nell’ambiente e la giusta comunicazione dei propri stati e bisogni agli adulti che si prendono cura di lui.

Momenti di sviluppo

In termini prettamente scientifici, genitori sufficientemente capaci e sopratutto sereni e tranquilli a livello delle proprie emozioni e dei propri stati d’animo stanno concorrendo alla costruzione di sinapsi e collegamenti nervosi alla base della capacità del bambino di conquistare una buona “regolazione emotiva“, cioè la profonda comprensione e padronanza dei propri stati interni, in particolare durante quelli che vengono osservati come i “momenti cardine” dello sviluppo emotivo dell’individuo: i due anni, la pubertà, l’adolescenza.

Intorno al secondo anno di vita, il bambino acquisisce sempre più consapevolezza di se stesso e pertanto di ciò che può determinare, in parte, attraverso il proprio comportamento su se stesso e sugli altri, dire “no” e mettersi in relazione come individuo con un certo grado di volontà con i genitori e l’ambiente accuditivo. La letteratura anglosassone, ma qualche genitore già lo sa, li definisce i “terrible two” (i terribili due), durante i quali i genitori sperimentano per la prima volta in maniera consapevole la propria autorevolezza. Attenzione! Sto parlando di autorevolezza, non di autorità, non di schiaffi e sculacciate per intenderci. La differenza sta nell’atteggiamento dei genitori verso il bambino. A quest’età, ma anche nelle successive, come detto sopra, è importantissimo che la sicurezza del genitore nell’educare a comportamenti adeguati il bambino, verso se stesso e gli altri, sia lo strumento preferibile da utilizzare per guidare l’acquisizione della competenza emotiva del bambino e non lasciargli dentro degli “irrisolti“. Mostrarsi autorevoli e spiegare al bambino dove ha sbagliato e perché e fornire un comportamento alternativo è la strada giusta perché aiuta il bambino a non sentirsi lui stesso “sbagliato” e ad abbinare a una certa emozione la “giusta” reazione emotiva che a sua volta deriva da emozioni ben comprese e ben gestite da chi lo sta educando. Questo lavoro dovrebbe essere un lavoro costante, che non dovrebbe esaurirsi mai per il corso della vita di ogni individuo, in particolare durante la pubertà e l’adolescenza quando gli enormi cambiamenti ormonali, fisici e psicologici fanno in modo che il ragazzo e la ragazza sentano anche più intensamente le proprie emozioni e hanno ancora più bisogno di questa guida da parte dell’adulto al fine, sopratutto, di diventare adulti e saper gestire e regolare le proprie reazioni in linea con ciò di cui hanno bisogno e ciò che la società chiede loro. Tratterò in maniera più specifica lo svincolo tra l’adolescenza e l’età adulta in un altro articolo.

A cosa serve la competenza emotiva?

Lo studio dell’emotività infantile, che comunque tiene conto dell’unicità di ogni bambino, ci aiuta ad affermare che un bambino già in età prescolare è in grado di provare empatia, ovvero la capacità di “mettersi nei panni degli altri” e quindi comprenderne e accogliere lo stato emotivo mettendo in atto comportamenti altruistici. Sappiamo però che il bambino possiede questa capacità fin dalle prime settimane di vita: per esempio i neonati si attivano al pianto di un altro neonato, rispondono ai vocalizzi di adulti o bambini e tentano di imitare le emozioni del viso degli adulti, mostrando attraverso questi “segnali” la spinta biologica ad entrare in contatto con i propri simili, per poi affinarsi e divenire sempre più “intenzionali”.

A proposito di comportamenti altruistici, il bambino è in grado di offrire aiuto all’altro già a partire dai 18-20 mesi, riproducendo modalità di comportamento simili a quelle apprese nel suo ambiente: si assiste infatti tante volte a un bimbo che offre un loro giocattolo o del cibo, porta il ciuccio al fratellino o ad un bambino più piccolo che piange; questo è un esempio per comprendere come bimbi molto piccoli hanno già appreso a riconoscere le emozioni altrui, a interpretarle e ad attivare un comportamento per “regolarle”, cioè abbassarle di intensità e renderle più accettabili per poterle gestire.

In più, l’adulto può impedire l’espressione da parte del bambino delle proprie emozioni e, a lungo andare, questi bimbi potrebbero essere quelli che vengono etichettati come “difficili“. Nella pratica, ogni genitore, nonno, insegnante e adulto di riferimento, può adottare delle “strategie” per poter arrivare all’espressione e alla comprensione delle emozioni dei bimbi per aiutarli a crescere al meglio. Dire al proprio bimbo quando ci si sente particolarmente stanchi, arrabbiati, ma anche felici, entusiasti, contenti, aiuta i bambini a “normalizzare” le loro sensazioni ed emozioni, a sentirsi compresi e accettati qualunque sia il loro stato d’animo nel momento in cui si sentiranno anche loro stanchi, arrabbiati, felici… mentre reprimere le emozioni negative davanti ai bambini veicola alcuni effetti negativi sul loro comportamento: se infatti il bambino percepisce che c’è qualcosa che non va e i genitori comunque continuano a comportarsi come se nulla fosse, rimangono confusi e perplessi dal messaggio contraddittorio che stanno ricevendo. Pertanto, è del tutto normale e, se ben gestito dai genitori, anche più facile per il bambino lasciare che sappia e comprenda ciò che sta accadendo sia di positivo che di negativo poiché ciò lo aiuta a capire, principalmente, che i problemi possono essere risolti e qualsiasi emozione va bene provarla, si può gestire e ogni problema può essere risolto con calma e sicurezza!

È sempre meglio quindi spiegare loro perché si è arrabbiati, tristi o turbati e dire cosa si potrà fare per migliorare la situazione.

Se il riconoscimento e la gestione delle emozioni sono capacità fondamentali, tanto quanto imparare a camminare e parlare, che vanno stimolate e sviluppate già dai primi anni di età, il linguaggio è la chiave per farlo e giocare a dare i nomi a quello che si prova è una delle tante strategie. Inutile è sgridare il bambino e metterlo in castigo, è invece molto più costruttivo accogliere il suo disagio, lasciargli il tempo di calmarsi provando a distrarlo e poi, una volta sereno, tornare sul comportamento errato e parlarne.

L’approccio ludico è, altresì, fondamentale. Il gioco rappresenta la “messa in scena” del mondo interno del bambino in un luogo e uno spazio “protetti” e allo stesso tempo è il mezzo con il quale i bambini imparano a esplorare e conoscere il mondo esterno, comprese le emozioni, proprie e altrui. Perciò, sono molto importanti i momenti di gioco che dedichiamo ai nostri figli perché in quel momento stiamo comunicando e trasmettendo al bambino il nostro ascolto, l’apertura verso di lui e i suoi vissuti. In base all’età, la manifestazione dell’emozione nel gioco sarà sempre più gradualmente un intreccio tra consapevolezza e “gioco simbolico“, in cui il bambino toccherà con mano anche le emozioni più intense e imparerà a gestirle proprio grazie alla caratteristica di “finzione” del momento ludico che lo aiuterà a stare “alla giusta distanza” da quell’emozione. Nei bimbi più piccoli, per fare un esempio dell’importanza del gioco nello sperimentare le emozioni, il cucù o il nascondino è un modo per imparare a gestire la paura più grande di tutte: quella dell’abbandono, che in questi giochi hanno l’opportunità di gestire e tenere sotto controllo.

Conclusione

Ciò che ho di più importante qui da trasmettere è che guidare i nostri bambini a riconoscere ciò che hanno dentro di loro, la loro unicità, il loro valore e a riconoscere e rispettare i propri bisogni, ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte, permette loro di comunicare ciò che sentono, quindi anche i propri disagi e conflitti, all’accettazione e al rispetto di loro stessi.

Insegnare ai bambini a gestire adeguatamente la propria emotività, permetterà loro di far tesoro e usufruire di quel bagaglio interiore  necessario per vivere al meglio ciò che accade nella loro vita e per relazionarsi con gli altri in modo equilibrato e sereno. Il compito che spetta ai genitori, e a tutti gli adulti di riferimento è riuscire a prevenire quello “analfabetismo emotivo” che è spesso alla base di tanti comportamenti dannosi. Tanti genitori lo sanno, ma pochi riescono ad agire sempre di conseguenza.

Spesso, è nella norma dare per scontato che i bambini anche piccoli conoscano le proprie emozioni e che riescano in autonomia a gestirle, ma questo si traduce spesso in disagi, o meglio in sintomi, che ogni bimbo o bimba può manifestare in modo diverso: un bambino può apparire improvvisamente taciturno, o capriccioso, o agitato, o aggressivo, proprio perché prova qualcosa che non riconosce e reagisce come può, nel modo che pensa essere più adattivo in quel momento.

Ecco che, non aver imparato a conoscere e riconoscere le proprie emozioni genera una sorta di circolo vizioso che impedisce di comprendere quelle altrui rendendo molto complicate le relazioni, generando bassa fiducia in se stessi e, di conseguenza, bassa autostima, poiché empatia e creatività rimangono bloccate e i sintomi emotivi iniziano a manifestarsi, spesso, in tutta la loro potenza.

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